Ci sono storie che si raccontano
quasi da sole. E ci sono luoghi che fanno nascere le storie. Othoni è uno di
questi posti così.
Fuori stagione è un luogo surreale. Sull’isola
più gatti che abitanti, un’unica strada andata e ritorno, un minuscolo
cimitero, una vecchia centrale elettrica, una scuola e un posto di polizia, due
o tre botteghe, solo una trattoria aperta. La trattoria di Tasso. Donne, credo
di averne contate non più di sei o sette.
E un porticciolo, quello sì.
Ora dopo ora, davanti alle olive, alle birre, alle carte di burraco nascevano
nei nostri discorsi le storie degli abitanti dell’isola. Ogni dettaglio ci serviva
per mettere insieme indizi, per ricostruire vicende vecchie e nuove. E gli
isolani, i vari Tasso, Pericle, Dimitri, ci fornivano, più o meno
consapevolmente, gli elementi mancanti per continuare il racconto, o
semplicemente per alimentare le nostre fantasie.
Poteva essere una lettera del
1955 e un paio di scarpe da donna trovati in una casa abbandonata, una zia
Afrodita emigrata in gioventù, potevano essere i calamari che per due giorni Tasso
annunciò di aver pescato, di aver intenzione di pescare o di aver cercato di
pescare - impossibile capirlo - e non ci portò mai per cena, poteva essere il
miele coltivato nei boschi nelle arnie di Babis che si materializzò
all’improvviso sul nostro tavolo in vasetti da chilo.
Nelle piccole isole le
storie nascono così. I viaggiatori cercano personaggi e gli isolani cercano autori.
Alla fine tutto quadra, ogni cerchio si chiude, dentro e fuori.
Di tutto questo si parlava a Othoni. E
chi di noi di volta in volta non raccontava e ascoltava, disegnava con la mente,
scriveva col pensiero, danzava con le parole.
Rita
















