Dopo tanti giorni chiusi nel nostro guscio in balia delle onde ci prepariamo a mettere finalmente i piedi a terra!
Da circa un giorno e mezzo, prima dell'ora prevista di arrivo a Capo Verde, il Capitano e il Conte si esercitano in problemi matematici per evitare l'atterraggio notturno.
Avvicinandoci all'isola, però, il vento cala. Proviamo a recuperare con il motore, ma è tardi e inesorabilmente il sole tramonta dietro l'alta montagna brulla dell'isola di Sant'Antonio, lasciandoci in piena oscurità, proprio nel canale tra questa e l'isola di San Vincenzo.
Per tutto il pomeriggio avevamo studiato il portolano per prepararci all'atterraggio a Mindelo, traducendolo dall'inglese senza dizionario e, sebbene a fatica, avevamo colto l'essenza di uno scenario non proprio rassicurante.
Nel Canale ci dobbiamo aspettare che il vento arrivi a duplicare o anche a triplicare la sua intensità e così ammainiamo le vele.
L'ingresso della baia dovrebbe essere diviso a metà da un grosso scoglio segnalato da un faro e in effetti è la prima cosa che vediamo.
Dopo di ché il portolano parla di innumerevoli relitti disseminati un po' ovunque a pelo d'acqua o appena sotto la sua superficie non segnalati oppure indicati con semplici boe, invisibili di notte.
Possiamo fare affidamento solo sui 10 decimi di Emilio a prua, su un faro auto-costruito da Alfredo quando si è reso conto di aver clamorosamente sbagliato i calcoli per un atterraggio diurno e su uno spicchio di luna al suo sesto giorno.
Procediamo con molta cautela verso la città e verso quello che crediamo essere il porto, ma arrivati di fronte a questo ci accorgiamo di tre navi in manovra.
Ad Emilio sembra che le prime due siano addirittura l'una al rimorchio dell'altra.
Fermiamo la barca, aspettando che manovrino prima loro e cerchiamo di ragionare sulle loro luci bianche, rosse e verdi per tracciarne le direzioni, in modo da non essere di intralcio.
Ma una volta fermi paradossalmente anche quelle si fermano.
Facciamo così la scoperta che a Capo Verde si è soliti utilizzare le luci di via, come luci di fonda. Restiamo un altro pò ad osservarle e ad avanzare ipotesi, ma poi riusciamo a distinguere anche la catena dell'ancora e ci dobbiamo arrendere all'evidenza: sono tre navi decisamente ferme nel bel mezzo della baia.
Che siano questi i relitti?
Riprendiamo a muoverci con estrema cautela e con grande apprensione verso quelle che in lontananza ci sembrano le luci di fonda di altre barche a vela, illuminando ogni ombra sospetta in mezzo all'acqua nera, fino a quando, finalmente, non guadagniamo un nostro fazzoletto, piuttosto decentrato e lontano dalla terra ferma, per dare fondo.
Alfredo vuole che vada io all'ancora perchè dice di fidarsi solo di me e ne sono ovviamente molto orgogliosa, tanto che mi tengo ben stretto questo ruolo, assediato dai bonari tentativi di Emilio di usurparlo.
Agguantiamo al primo colpo, con sfrizionamento senza salti del verricello e senza arare; il mio piede non ha dubbi: fondale di sabbia e fango, ottimo tenitore!
Appena spento il motore qualcuno sale dalla dinette con quattro birre ghiacciate per brindare all'impresa, mentre dalla città di Mindelo il caldo vento africano ci porta una potente musica di tamburi e percussioni un richiamo ancestrale a perdersi in un continente a noi ancora del tutto sconosciuto.
Scendiamo a terra solo il giorno dopo, con una calma e lentezza insolite, la verità è che non ci va di lasciare l'Oceano e il nostro guscio con i suoi ritmi protetti.
Indugiamo nel limbo di una palafitta galleggiante su cui è allestito un punto di ristoro, per due ore buone e lentamente tra un caffè e l'altro ci riconnettiamo con il mondo.
Siamo davvero esitanti ad andare per strada, ma quando lo facciamo l'Africa ricomincia a battere le sue percussioni.
Non riusciamo a capire da dove provenga quel ritmo tribale e ancestrale, che ci arriva solo a tratti e da direzioni opposte.
Il vento porta il cuore dell'Africa a rimbalzare contro un muro di una casa coloniale e noi prendiamo quella direzione, ma poi sbatte su un murales nella direzione opposta e ci spiazza ancora e ancora.
Questo suono ci ha ormai risucchiato, come nel gioco di Jumangj e non possiamo fare altro che seguirlo rimbalzando anche noi da un muro all'altro, fino ad incrociare finalmente la sua fonte: i Mandinga, la popolazione dell'Africa nera portata, in questo arcipelago, con la forza e l'inganno, dai colonizzatori portoghesi.
I Capoverdiani hanno la pelle mulatta, i loro lineamenti sono morbidi, il portamento sensuale, lo sguardo è malinconico e quando gli parli si apre nel più dolce dei sorrisi appena un pò imbarazzato.
I Mandinga invece sono nerissimi, vestono tribale, con gonne di paglia a petto nudo, ballano divinamente sventolando all'aria dei grossi bastoni.
Ma quando siamo in mezzo a questo fiume umano che ci trascina nella danza, ci accorgiamo che la loro pelle è così nera per un carbone con cui si cospargono e con cui ci cospargono, in una sorta di rito di iniziazione.
Non capiamo se festeggiano una ricorrenza o se manifestano per la rivendicazione delle loro origini africane, del loro sangue indomito che cerca di non cedere alle lusinghe della Saudade portoghese.
Eppure quel cedere ha creato la musica di Cesaria Evola o di Joan Umberto, che è cantata dal vivo nei rari piccoli locali notturni di Mindelo.
La improvvisa alla chitarra Alvaro seducendoci con gli occhi mentre pasteggiamo con il vino locale. La suona un giradischi nel locale fumoso di Caterina, che ci prepara con meravigliosa lentezza verdure e "queso di terra alla plancia", mentre chiacchiera con gli altri tre avventori, amici o abituè.
Ed infine si mescola con ritmi più afro nel locale Jazz aperto solo il sabato sera: un bancone, due tavoli fuori e due dentro, fumo denso di sigaro. Un uomo canta accopagnato da una chitarra pizzicata, dalla finestra in alto qualcuno intercala con un tamburo, e nella sala si unisce, improvvisando, una seconda percussione.
Una giovane donna dalla pelle di velluto e dal portamento regale, inizia a ballare, mentre un signore suona le maracas, sorseggiando Grogue. Lei è praticamente ferma e sono solo le sue curve sinuose che si dimenano al punto che il ritmo non sai più se proviene dalle maracas o da lei che riempie di sè la stanza come una brasiliana un carro di carnevale.
E anche per questo Mindelo ricorda il Brasile e noi ci siamo capitati proprio nel periodo in cui ci si prepara al Carnevale.
Ogni quartiere dal pomeriggio fino a sera tardi si allena con le danze e i tamburi, sostenendo un ritmo frenetico per ore senza sosta.
Quando finalmente riusciamo a intrufolarci in uno dei luoghi dove suonano iniziamo a ballare anche noi, perché il ritmo è irresistibilmente coinvolgente, ma il nostro fiato è corto e il nostro corpo si muove a scatti.
Ti rendi conto istantaneamente che NON appartieni alla razza superiore. Lo capisci anche dall'età di questo popolo giovane e pieno di energia.
Gli anziani sono pochi mentre pullulano i bambini e i ragazzini.
In un villaggio sul mare nella parte sud di San Vincenzo, per esempio, i bimbi scorrazzano a frotte in piazza, giocando liberi insieme agli animali. I giovani stanno intorno a robuste barche di legno, costruite con meticolosa fattura e ogni tanto le spingono dalla spiaggia al mare. Ci vogliono una ventina di loro, per quanto sono pesanti. Le usano per la pesca o per accompagnare qualche raro turista a vedere le tartarughe. Non sono in competizione fra loro. L'unico che conosce l'inglese parla con i possibili clienti e poi a turno esce una delle tante barche e tutti aiutano nel suo trasporto.
All'ombra di alcuni alberi giganti ci sono due donne che vendono acqua nelle taniche e altre che le portano nelle loro case tenendole in equilibrio sulla testa.
Nessuno ha un cellulare e non si vedono antenne di televisione.
Il resto dell'isola è terra rossa, arsa dal sole, desertica per la mancanza di pioggia, montagne di roccia e dune di sabbia bianca sferzate dal vento verso un mare dai colori violenti, chiari e cristallini a riva e blu cobalto verso l'orizzonte schiumoso.
Il cuore dell'isola, però, ci riserva una sorpresa: la lunga strada fatta di san pietrini che da Mindelo porta a Bahia, scorre accanto ad una valle stretta e lunga, che un tempo era il letto di un fiume, ora prosciugato.
Ma l'acqua dolce non è scomparsa del tutto: si è solo ritirata nel sottosuolo.
Lo capiamo dai piccoli mulini che azionano le pompe dei pozzi.
Lungo quella valle sorgono numerose masserie. Alcune sono veri e propri manieri coloniali, altre piccole fattorie, ognuna con il suo pozzo e mulino, con il suo recinto per il ricovero degli animali, soprattutto capre e pollame; ma c'è anche qualche mucca piuttosto smagrita, ma tutti rigorosamente liberi e privi di catene.
Le case sono circondate da palme e alberi da frutto e ciascuna è dentro un recinto alto che protegge anche i grossi e rigogliosi orti.
Da qui il passo per chiedere e fare la scoperta del mercato dei locali è breve e fare la cambusa nelle sue bancarelle, ognuna appartenente ad una di queste masserie, in una piazza defilata di Mindelo, è una vera esperienza.
Ci accompagna Griselda una donna italo argentina che ha un piccolo B&B, con cui abbiamo fatto amicizia fin dalla prima sera.
Ci suggerisce le bancarelle migliori e ci aiuta a contrattare i prezzi, e tranquillizza la polizia che continuava a scortarci, nostro malgrado.
Dopo un'intera mattinata abbiamo una cambusa di fresco colorata e ricca dei profumi della terra di San Vincenzo.
Adesso che la stiamo consumando tra le onde alte dell'Oceano ci ricorda l'infanzia, quando anche le nostre patate profumavano di terra, i peperoni avevano un gusto intenso e l'insalata era scrocchiante e gustosa, anche se dovevi condividerla con bruchi e altri piccoli animali.
Sì c'è "miseria" in questo arcipelago africano; nei villaggi non c'è l'acqua corrente. Non c'è lavoro e la manodopera è così economica che è risultato più conveniente costruire una strada coi san pietrini che acquistare una betumiera, ma davvero non lo so chi tra noi e loro è più povero!
E'stato scritto e vissuto tra l'1 e il 10 febbraio 2020