Ci sono storie che si raccontano
quasi da sole. E ci sono luoghi che fanno nascere le storie. Othoni è uno di
questi posti così.
Fuori stagione è un luogo surreale. Sull’isola
più gatti che abitanti, un’unica strada andata e ritorno, un minuscolo
cimitero, una vecchia centrale elettrica, una scuola e un posto di polizia, due
o tre botteghe, solo una trattoria aperta. La trattoria di Tasso. Donne, credo
di averne contate non più di sei o sette.
E un porticciolo, quello sì.
Tasso si
presentò all’ormeggio ondeggiando sul suo scooter, pancia allegra e tesa,
sorriso sornione e grandi baffi. Acconciatura impeccabile, con una riga
perfetta sul lato sinistro. Con aria indifferente attaccò discorso e ci disse
che - combinazione - si trovava lì perché era appena tornato dalla pesca di
calamari.
Ora dopo ora, davanti alle olive, alle birre, alle carte di burraco nascevano
nei nostri discorsi le storie degli abitanti dell’isola. Ogni dettaglio ci serviva
per mettere insieme indizi, per ricostruire vicende vecchie e nuove. E gli
isolani, i vari Tasso, Pericle, Dimitri, ci fornivano, più o meno
consapevolmente, gli elementi mancanti per continuare il racconto, o
semplicemente per alimentare le nostre fantasie.
Poteva essere una lettera del
1955 e un paio di scarpe da donna trovati in una casa abbandonata, una zia
Afrodita emigrata in gioventù, potevano essere i calamari che per due giorni Tasso
annunciò di aver pescato, di aver intenzione di pescare o di aver cercato di
pescare - impossibile capirlo - e non ci portò mai per cena, poteva essere il
miele coltivato nei boschi nelle arnie di Babis che si materializzò
all’improvviso sul nostro tavolo in vasetti da chilo.
Nelle piccole isole le
storie nascono così. I viaggiatori cercano personaggi e gli isolani cercano autori.
Alla fine tutto quadra, ogni cerchio si chiude, dentro e fuori.
Un inarrestabile contagio. E tutti cominciamo
a raccontare. Di Calipso che lasciò andare Ulisse rinunciando per sempre al suo
amore. Di quando Ulisse volle ascoltare il canto delle sirene facendosi legare
all’albero della nave. Di Rio De Janeiro. Di San Paulo. Delle favelas. Di
Salvador de Bahia. Dei viados. Di Dona Flor e i suoi due mariti. Dell’oceano. Di
scene da western in un bar di Locri. Di bambole carbonizzate nel forno, di
macchine rubate ai genitori e poi sfasciate, di corse al pronto soccorso. Di persone
bizzarre incontrate nei viaggi in barca, di serate improvvisate e di aneddoti
incredibili. Di quando lo stesso Tasso, in preda al furore sacro della danza, appiccò
sul pavimento un cerchio di fuoco e poi cadde teatralmente in ginocchio davanti
alla sua dama, spiccando subito dopo un balzo repentino e riprendendo a ballare
senza sosta la pizzica immerso in un bagno di sudore. Di molte altre cose
strane, tristi, felici, esilaranti, drammatiche, irresistibili.
E di Pina Baush, di quando questa
magrissima signora tedesca, sconosciuta ai più, in una discoteca qualsiasi
della movida salentina animò il suo elegante corpo nervoso inseguendo, scardinando
e interpretando gli ondeggiamenti performanti e anonimi delle cubiste seminude,
con la naturalezza e l’incanto di chi incarna la bellezza perché la vede, di
chi non rinuncia mai alla poesia in nessun momento e in nessun luogo, di chi
non risparmia mai il dono di sé.
Di tutto questo si parlava a Othoni. E
chi di noi di volta in volta non raccontava e ascoltava, disegnava con la mente,
scriveva col pensiero, danzava con le parole.
Rita